Sufjan Stevens è un'icona del mondo indie-folk americano, una sorta di culto per cui ogni suo album oscilla inevitabilmente tra il geniale e il capolavoro. Provando per un attimo a non seguire il gioioso gregge degli entusiasti a prescindere vale la pena di ascoltare Carrie & Lowell, suo settimo album in studio, per quello che è (sarà illegale fare una recensione non entusiasta?).
Chi segue MantaRay già lo sa ma a chi capitasse qui per la prima volta ricordo che a me di quello che dice Sufjan Stevens o chiunque altro nei suoi testi interessa poco o nulla. Io ascolto strumenti, melodie e armonie, poi che il cantante legga il menù di un ristorante o enunci profondissimi versi è un dettaglio che mi sposta poco o nulla.
Le melodie di Sufjan sono esili, spesso solo accennate, Carrie & Lowell in questo senso è un ritorno al passato al Sufjan Stevens essenziale e folk fino al midollo, senza concessioni a nulla che non sia acusticamente elementare. Per certi versi il suo fare musica può ricordare alcune cose di Simon & Garfunkel, quelle in cui la musa dell'ispirazione faticava a manifestarsi.
Le 11 tracce di Carrie & Lowell paiono tutte una premessa a qualcosa che poi non arriva, una dolente intro a un'apertura melodica che non esiste. E' intimo e sofferente il mondo di Sufjan Stevens, spesso monocorde, adatto (forse) a persone profonde e meditabonde. Poco adatto alla concezione del folk di MantaRay per cui il ritmo è un elemento non facoltativo. Per carità, le pause meditative sono importanti nella vita, per cui se avete bisogno di una pausa lunga 43 minuti avete trovato l'album giusto. Se cercate anche emozioni che non siano gentili, soffuse e sussurrate allora state lontani da Carrie & Lowell.